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ISSN 2612-677X (sito web) - ISSN 2704-6516 (rivista)

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8 Gennaio 2023
Raffaele Bianchetti

,

Alessandro Rudelli

,

Parental abuse ed intervento giuridico: un’indagine presso il Tribunale per i Minorenni di Milano

Fascicolo 1

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Abstract Italiano

Il parental abuse, ossia la violenza filio-parentale, è un fenomeno complesso, nascosto, caratterizzato da un elevato indice di occultamento, ancora scarsamente indagato dai ricercatori delle varie discipline ma nei cui confronti sta progressivamente crescendo l’attenzione scientifica perché esso, oltre ad essere chiara manifestazione di una severa crisi evolutiva e relazionale degli adolescenti, pone il mondo degli adulti e degli operatori (soprattutto del settore minorile) dinanzi ad imprescindibili interrogativi circa l’adeguatezza delle risposte istituzionali fornite. Pertanto, il presente lavoro, che prende spunto da una ricerca effettuata presso il Tribunale per i Minorenni di Milano, intende portare l’attenzione su un fenomeno che investe direttamente l’organo giudiziario minorile nelle determinazioni che esso deve assumere nell’interesse del minore, che talvolta è anche autore di reato, e del suo nucleo famigliare.

Abstract English

Parental abuse, i.e. child-parental violence, is a complex phenomenon, hidden, characterised by a high index of concealment, still scarcely investigated by researchers of various disciplines but for which scientific attention is progressively growing because it is not only a clear manifestation of a severe developmental and relational crisis of adolescents, but it also poses the world of adults and operators (especially in the juvenile sector) with unavoidable questions about the adequacy of the institutional responses provided. Therefore, the present work, which takes its cue from a research carried out at the Juvenile Court of Milan, intends to draw attention to this phenomenon that directly affects the juvenile judicial body in the decisions that it must take in the interest of the child, who is sometimes also a perpetrator of crime, and of his family unit.

SOMMARIO

1. Premessa. – 2. La violenza filio-parentale: un fenomeno in evoluzione. – 3. Il parental abuse e la “gestione” giuridica del fenomeno. ­– 3.1. Le misure rieducative per i minorenni: una risorsa possibile. ­– 3.2. Le misure rieducative: caratteristiche, finalità e durata. – 3.3. Le misure rieducative in relazione al procedimento penale. – 4. Un’indagine sul parental abuse presso il Tribunale per i Minorenni di Milano. – 4.1. I motivi e le finalità della ricerca. – 4.2. La struttura della ricerca. – 4.3. Il campione indagato e i risultati della ricerca. – 4.4. (segue): alcune ricorrenti problematicità riscontrate – 5. Alcune considerazioni conclusive.

1. PREMESSA

Il presente1 lavoro prende spunto da una più ampia ricerca, per la quale si stanno prospettando ulteriori sviluppi, effettuata presso il Tribunale per i Minorenni di Milano avente ad oggetto la violenza filio-parentale, altrimenti denominata parental abuse . Si tratta di un fenomeno nascosto, caratterizzato da un elevato indice di occultamento, ancora scarsamente analizzato da parte dei ricercatori delle varie discipline o dagli esperti del settore minorile, ma nei cui confronti sta progressivamente crescendo l’allarme in merito alla sua diffusione . Nelle condotte violente dei figli contro i propri genitori vi è d’altronde la manifestazione di una severa criticità evolutiva e relazionale degli adolescenti: approfondire con adeguati studi ed osservazioni2 tali situazioni critiche significa porsi imprescindibili interrogativi sui modelli educativi, sulla tenuta dei sistemi famigliari e sui bisogni di cura delle giovani generazioni.
Come è noto, le condotte violente dei figli a danno dei famigliari, se caratterizzate da comportamenti reiterati nel tempo, agiti con la volontà di vessare facendo vivere le vittime in uno stato di ansia se non addirittura di terrore, possono concretizzarsi nella realizzazione di fatti costituenti reato, tra cui, ovviamente, quello previsto e punito dall’art. 572 c.p. («Maltrattamenti contro familiari e conviventi»).
In ogni caso, ciò che si è evidenziato con chiarezza nell’indagine quali-quantitativa3 effettuata è l’opportunità di intervenire quanto più precocemente possibile disponendo l’attivazione di interventi psico-socio-educativi che abbiano caratteristiche preventive e tutelanti, quali quelli adottabili con le misure a favore dei minorenni «irregolari nella condotta o nel carattere» previste e disciplinate dal nostro ordinamento giuridico4, alle quali poter ricorrere in via esclusiva o, eventualmente, in correlazione alle misure adottate in sede penale laddove sia contestualmente avviato anche tale procedimento giudiziario minorile.
Pertanto, il principale obiettivo del presente lavoro è quello di portare l’attenzione su un fenomeno complesso che espone molteplici elementi di preoccupazione e che investe direttamente l’organo giudiziario minorile nelle determinazioni da assumere a favore del minore e del nucleo famigliare drammaticamente coinvolti in una dinamica ad alto rischio di pregiudizio.

2. LA VIOLENZA FILIO-PARENTALE: UN FENOMENO IN EVOLUZIONE 

Nella radicata percezione comune le violenze, gli abusi e i maltrattamenti posti in essere dagli adulti a danno dei minorenni costituiscono eventi che sconcertano, giungendo sovente alla soglia dell’indignazione quando maltrattante è il genitore, ovvero colui che dovrebbe assicurare la cura e la tutela del figlio. Numerosi programmi, studi, ricerche, progetti e organismi nazionali ed internazionali di protezione all’infanzia sono dedicati specificamente alla trattazione di tale grave problematica, essendosi ormai consolidata la consapevolezza della necessità di conoscere a fondo il fenomeno per poterlo contrastare nella maniera più efficace possibile .
Similmente, si solleva una sensazione collettiva di sgomento quando la cronaca porta in evidenza crimini efferati commessi in ambito domestico nei quali i panni della barbarie sono indossati dai figli: i casi estremi di omicidio dei genitori hanno sempre costituito autentici shock collettivi . Ma al di là di tali eccezionali accadimenti, fatica a prendere forma la figura del genitore vittima di quotidiane violenze e sopraffazioni da parte del figlio, quasi questa fosse un’eventualità assente o una sorta di caricatura.
Definita come un agito violento continuativo o ricorrente «messo in atto da un figlio con l’intenzione di causare un danno fisico, emotivo o economico per ottenere il controllo sul genitore» , la violenza filio-parentale solo recentemente ha cominciato ad essere posta sotto osservazione come fenomeno in crescente diffusione nei confronti del quale si manifesta l’urgenza di accedere a “chiavi” di osservazione, di interpretazione e di intervento.
La prima difficoltà da dover tenere in considerazione nella messa a fuoco di tale questione è quella determinata dalla generale indisponibilità dei genitori a rendere pubblica la propria condizione di vessati: il timore di essere considerati dei “cattivi educatori” responsabili delle condotte del figlio; la paura delle escalation nelle violenze subìte che potrebbe derivare come reazione alla loro richiesta di aiuto; la preoccupazione per le conseguenze all’attivazione delle istituzioni; l’aspettativa che possa trattarsi di una situazione in spontanea remissione futura; la speranza di una fuoriuscita del figlio dell’abitazione famigliare; l’assenza di servizi specialistici ai quali rivolgersi sono tutti fattori che contribuiscono in maniera importante a rendere oscuro sia il dimensionamento sia la stessa conoscenza diretta del fenomeno.
Ciò malgrado, è andata sviluppandosi, negli ultimi quindici anni, una significativa articolazione di definizioni cliniche – più che criminologiche – indirizzate a precisare le peculiarità delle condotte di parental abuse distinguendole dalle violenze perpetrate a danno dei genitori in ragione di fattori esogeni , quali ad esempio le intimidazioni, le minacce o le aggressioni del figlio tossicodipendente finalizzate ad estorcere denaro per l’acquisto di sostanze stupefacenti in ragione della propria condizione patologica .
Si è quindi venuta a costruire una prospettiva nosografica nella quale la violenza filio-parentale in senso proprio si è progressivamente autonomizzata dalle molteplici ragioni di carattere transitorio che possono generare una conflittualità domestica anche molto accesa (tipicamente, le rivendicazioni di maggior autonomia dei figli adolescenti che si scontrano con le regole dei genitori), così come si sta via via precisando una connotazione del parental abuse distinta dalle manifestazioni violente intrafamigliari generate direttamente dall’acuzia di condizioni di patologia psichiatrica (nelle quali la violenza sarebbe l’espressione di un sintomo e non un funzionamento psichico-relazionale in senso proprio), di tossicodipendenza (nel cui caso, come accennato, la violenza sarebbe indirizzata al soddisfacimento di un utile per il proprio bisogno “farmacologico” non differibile) o da fattori espressamente criminogeni (quali l’adesione ad un gruppo delinquenziale che si proporrebbe come antagonista all’appartenenza famigliare) .
Con maggior difficoltà e minor diffusione, si sono altresì sviluppati interventi clinici nella presa in carico e nel trattamento psicoterapico di soggetti minorenni e di gruppi famigliari direttamente investiti dalle emergenze della violenza filio-parentale, andando con ciò ad avviare pratiche di cura che vanno perfezionandosi in specifici protocolli operativi e che stanno favorendo la messa in comune delle esperienze e dei risultati terapeutici sinora conseguiti in alcuni Paesi .
Occorre dire che si tratta di un lavoro estremamente apprezzabile ma che deve essere considerato ancora iniziale essendo evidenti, ai ricercatori, le attuali carenze di dati epidemiologici, l’insufficiente analisi fenomenica di siffatta forma di violenza nonché l’acerba esperienza clinica nella diagnosi e cura, a fronte di un’assenza pressoché totale in Italia di servizi dedicati e di operatori con competenze specifiche per intervenire efficacemente in tali situazioni patologiche .
Ad ogni modo, il trattamento dei pazienti implicati in quadri di parental abuse richiama quasi per definizione l’inevitabilità di un rapporto con la norma di legge o, addirittura, con l’autorità giudiziaria , trattandosi nella totalità dei casi di episodi ricorrenti che, per le loro caratteristiche di lesività e di offensività, possono senz’altro rientrare in fattispecie di reato o in condotte francamente qualificabili come “irregolari” se non devianti in senso proprio.

3. IL PARENTAL ABUSE E LA “GESTIONE” GIURIDICA DEL FENOMENO

3.1. LE MISURE RIEDUCATIVE PER I MINORENNI: UNA RISORSA POSSIBILE

Prima di illustrare l’indagine effettuata e i risultati emersi è opportuno soffermarsi, seppur brevemente, sugli strumenti giuridici che il sistema di giustizia minorile mette a disposizione degli operatori del diritto per tentare di gestire, laddove possibile, in maniera tempestiva ed efficace, alcuni fenomeni sociali, come il parental abuse appunto, che rappresentano una marcata espressione di malessere, disagio e sofferenza giovanile oltre che una condizione di acuta difficoltà dei minori e dell’intero nucleo famigliare .
Come è noto, il sistema di giustizia minorile utilizza gli “strumenti” di cui dispone secondo intenti che sono di prevenzione, tutela e accompagnamento al superamento delle criticità del soggetto in età evolutiva, anche quando queste criticità si esprimono con comportamenti devianti o criminali . Tale sistema di giustizia è orientato ad assicurare, nell’esercizio di ogni sua singola attribuzione (penale, civile, amministrativa), la completezza dell’intervento nel preminente interesse del minore : interesse, si badi bene, che non può essere parcellizzato, ma che deve essere considerato “a tutto campo”, tanto nelle declinazioni “a tutela” quanto in quelle “educative” od in quelle propriamente “trattamentali” .
Di conseguenza, come avremo modo di vedere, l’impiego ponderato e talvolta congiunto di strumenti giuridici diversi può essere idoneo a rinforzare la prospettiva di buon esito degli interventi a favore dell’attore di violenza filio-parentale, soprattutto quando a provvedimenti di natura penale si aggiungono o si sostituiscono quelli di carattere amministrativo che prevendono, prima, durante o dopo la celebrazione del processo penale, l’applicazione di misure rieducative per i minorenni.

3.2. LE MISURE RIEDUCATIVE: CARATTERISTICHE, FINALITÀ E DURATA

Le misure rieducative per i minorenni , previste e disciplinate dagli artt. 25 e ss. del r.d.l. 20 luglio 1934, n. 1404 e succ. modif. , rappresentano una peculiarità del sistema di giustizia minorile e, per certi aspetti, una preziosa risorsa perché esse, nel tempo, si sono rivelate strumenti di prevenzione speciale efficaci dinanzi alla messa in atto, da parte dei minorenni, di condotte a rischio (singole o reiterate nel tempo, ma non necessariamente costituenti reato) per sé o per gli altri . Esse sono applicabili, per legge, nei confronti dei minori di anni diciotto che diano manifeste prove di irregolarità nella condotta o nel carattere, mettendo in atto comportamenti che sono sintomo di un grave disagio o di profonde criticità evolutive . In questi casi, secondo la normativa vigente, il procuratore della Repubblica, l’ufficio di servizio sociale minorile, i genitori, il tutore o gli organismi di educazione, di protezione e di assistenza dell’infanzia e dell’adolescenza, possono riferire i fatti al tribunale per i minorenni che, per mezzo di uno dei suoi componenti all’uopo designato, compie approfondite indagini sulla personalità del minore.
All’esito di queste indagini e, più in generale, dell’attività istruttoria svolta , una volta che è stato acquisito il parere del pubblico ministero, il tribunale per i minorenni decide se e come intervenire, deliberando in camera di consiglio o l’archiviazione del procedimento o, con decreto motivato, l’avvio di un programma psico-socio-educativo nell’ambito di una delle seguenti misure: l’affidamento del minore al servizio sociale minorile; il collocamento del minore in un’idonea struttura, che potrebbe essere, a seconda delle necessità, anche una comunità educativa o una comunità terapeutica . Nel caso in cui venga disposta la prima misura prevista dall’art. 25, co. 1, n. 1 r.d.l. n. 1404/1934 (vale a dire l’affidamento del minore al servizio sociale minorile) , nel decreto dovranno essere indicate, secondo quanto previsto dall’art. 27 dello stesso testo di legge, le prescrizioni che il minore dovrà seguire – che potranno riguardare, a seconda dei casi, la sua istruzione, la formazione professionale, il lavoro, l’utilizzo del tempo libero, nonché eventuali terapie – oltre alle linee direttive dell’assistenza delle quali egli sarà destinatario. Nel caso, invece, in cui venga disposto anche l’allontanamento del minore dalla abitazione famigliare, il provvedimento dovrà indicare il luogo in cui il minore dovrà vivere e la persona o l’ente che si dovrà prenderà cura del suo mantenimento, della sua salute psico-fisica e della sua educazione.
In ogni circostanza, al minore devono essere assicurati idonei interventi educativi, psicologici e sociali finalizzati ad accompagnarlo in un percorso di crescita nel quale potersi affrancare dalle condizioni di vulnerabilità evolutiva manifestatesi con le condotte marcatamente disfunzionali dalle quali ha avuto origine il procedimento giudiziario a suo favore.
I servizi incaricati e, in particolare, l’ente affidatario dovranno controllare la condotta del minore e lo dovranno aiutare nel superare le difficoltà del suo percorso di crescita, mettendosi in relazione di supporto anche con la famiglia e con le altre figure di riferimento che operano nell’ambito dei suoi ambienti di vita.
L’ente affidatario, unitamente a tutti gli altri servizi socio-sanitari coinvolti nel procedimento, saranno tenuti a riferire al giudice con periodicità in merito all’andamento della misura e a fornire notizie dettagliate: sul comportamento del minore, delle persone che con lui interagiscono nell’ambito del progetto e di quelle che si sono prese cura di lui; sull’osservanza e sull’efficacia delle prescrizioni stabilite; su quant’altro interessi l’evoluzione del soggetto “affidato”. I servizi potranno avanzare altresì, se del caso, proposte di modifica delle prescrizioni, di trasformazione della misura oppure di cessazione della stessa. A tale riguardo, l’art. 29 r.d.l. n. 1404/1934 stabilisce che le prescrizioni stabilite a norma dell’art. 27 possono essere modificate in ogni tempo dal tribunale e che è sempre facoltà dello stesso organo giudiziario trasformare la misura disposta in un’altra, più idonea ai fini dei bisogni educativi e del progressivo reinserimento del minore nella vita sociale .
Anche la cessazione delle misure rieducative potrà essere ordinata in ogni tempo, allorché il tribunale verifichi: che le situazioni che hanno determinato l’applicazione delle stesse siano venute meno; che il minore appaia riadattato; che le condizioni fisiche o psichiche dello stesso siano tali da rendere inidonea e, quindi, inopportuna ogni tipologia di misura. Ad ogni modo, la cessazione della misura sarà ordinata dal tribunale per i minorenni al compimento del ventunesimo anno di età del ragazzo, così come stabilito dall’art. 29, co. 2, r.d.l. n. 1404/1934 .

3.2. LE MISURE RIEDUCATIVE IN RELAZIONE AL PROCEDIMENTO PENALE

Ciò detto, occorre tenere presente che le suddette misure (l’affido all’ente o il collocamento in idonea struttura), possono essere anche applicate, ai sensi dell’art. 26 del r.d.l. n. 1404/1934, quando il minore è sottoposto a procedimento penale. Infatti, misure rieducative possono essere promosse dal pubblico ministero, se è in corso un procedimento penale a carico del minore, quando quest’ultimo: a) non può essere o non è assoggettato a misura cautelare personale; b) è stato prosciolto per difetto di capacità di intendere e di volere (perché infraquattordicenne, o immaturo, o affetto da vizio totale di mente), senza che sia stata applicata una misura di sicurezza detentiva. Inoltre, esse devono essere sempre valutate dal tribunale, per l’eventuale applicazione, quando sono stati concessi nei confronti dell’imputato minorenne il perdono giudiziale (ai sensi dell’art. 169 c.p.) oppure la sospensione condizionale della pena (ai sensi degli artt. 163 e ss. c.p.).
Queste ulteriori ipotesi applicative rendono del tutto evidente l’esistenza di uno spazio di interazione e di “integrazione” delle misure rieducative con il procedimento penale a carico di un minorenne. Non è insolito infatti – almeno per ciò che concerne la prassi di alcuni tribunali – che procedimenti penali e procedimenti amministrativi nei confronti dello stesso minorenne vengano avviati a breve distanza l’uno dall’altro, anche quando siano stati commessi reati di notevole gravità (ad esempio omicidi, lesioni aggravate, risse, violenze sessuali, spaccio di sostanze stupefacenti, maltrattamenti in famiglia). Anzi, di solito i due procedimenti giudiziari, pur venendo avviati in tempi ravvicinati (il penale con lo svolgimento delle sue attività di indagine e con gli accertamenti sulla personalità del minore, ai sensi dell’art. 9 d.P.R. 448/1988, e l’amministrativo con le sue attività istruttorie “allargate ed integrate”), si sviluppano secondo tempistiche diverse, mettendo però a reciproca disposizione le informazioni e le indicazioni sulle opportunità “trattamentali” utili al minore e agli operatori attivi nell’ambito di entrambi i procedimenti.
Ad esempio, vi sono situazioni – tipicamente quelle di minori processati “a piede libero” – nelle quali il procedimento amministrativo è più celere nella sua progressione e giunge prima a definizione (perché il progetto psico-socio-educativo viene più velocemente elaborato, o perché il decreto del tribunale risulta essere più tempestivo, o perché la misura rieducativa è immediatamente applicata etc.), mentre il procedimento penale necessita di maggiore tempo per essere portato alla celebrazione dell’udienza preliminare (dove, di fatto, viene definito il maggior numero di procedimenti penali a carico di imputati minorenni). In tal caso, l’acquisizione in visione degli atti del procedimento amministrativo fornisce importanti informazioni sulla personalità del minorenne e sul processo maturativo ed auto-regolativo, andando così ad arricchire gli elementi oggettivi e concreti su cui avanzare, in sede penale, eventuali proposte o richieste (quali l’avvio di un progetto di messa alla prova o l’applicazione del beneficio del perdono giudiziale) e fondare le decisioni del collegio giudicante.
Al contrario, però, vi sono anche situazioni nelle quali avviene esattamente l’inverso, con il procedimento amministrativo che si “accoda” al procedimento penale, traendo da quest’ultimo le indicazioni fondamentali su cui fondare il proprio progetto psico-socio-educativo. Sono i casi nei quali ci si rende conto della necessità che il minore, a conclusione della propria vicenda penale, sia ulteriormente seguito dai servizi sociali e sanitari, perché egli risulta ancora fragile, vulnerabile e poco autonomo sul piano esistenziale. Pensiamo, per citare alcune situazioni che si riscontrano nella prassi, a quelle in cui il minore viene prosciolto perché infraquattordicenne, oppure a quelle in cui il soggetto viene dichiarato non imputabile ai sensi dell’art. 98 c.p., oppure ancora a quelle in cui viene concesso il perdono giudiziale. Ma pensiamo, soprattutto – come l’evidenza empirica dimostra – alle situazioni nelle quali la messa alla prova si conclude positivamente, e quindi estingue il reato, ma il ragazzo o la ragazza necessita ancora, per sua stessa ammissione e richiesta, di essere seguito/a, aiutato/a e sostenuto/a nel suo percorso maturativo (ci si riferisce, emblematicamente, a situazioni riguardanti minori stranieri non accompagnati, a ragazzi e ragazze che hanno preso le distanze dalle organizzazioni criminali di appartenenza oppure ancora dalle proprie famiglie maltrattanti) .
Da ultimo, si tenga conto che le misure rieducative possono essere applicate anche ad alcune vittime di reato, come quelle indicate all’art. 25 bis r.d.l. n. 1404/1934 . Ora, senza addentrarsi nei dettagli di questa disposizione, quel che è importante rilevare in questa sede è il fatto che le misure rieducative a tutela del minorenne possono essere applicate anche nei confronti di chi, coinvolto in un procedimento penale, è altresì vittima di reati. Non è così infrequente, infatti, che si venga a sapere che un imputato minorenne o un soggetto sottoposto a misure rieducative per la messa in atto di comportamenti a rischio o devianti, sia stato, a sua volta, vittima di reato o di più reati e che, per questi motivi, debbano impiegarsi in contemporanea strumenti diversi con finalità diverse. Pensiamo, ad esempio, ad alcuni casi che giungono all’attenzione del tribunale per agiti auto o etero aggressivi da parte di minori all’interno delle mura domestiche, oppure per denunce da parte dei genitori nei confronti del proprio figlio per atti di violenza sessuale perpetrati nei confronti del fratello o della sorella, oppure ancora per maltrattamenti in famiglia, dove il figlio con i propri comportamenti “tiene in scacco” i genitori. Ebbene, in alcuni casi come questi, quando si inizia a fare luce in sede di istruttoria sulla reale situazione socio-famigliare del minore, ci si rende conto non di rado che i fatti commessi dal minore, quelli per cui è stato aperto un procedimento amministrativo o un procedimento penale, non sono altro che reati-sintomo di un disagio sottostante, di abusi a sua volta subiti o di maltrattamenti visti e vissuti nel corso degli anni da parte del ragazzo all’interno del proprio nucleo famigliare.

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note

[1] La ricerca è stata effettuata dagli estensori del presente articolo, in collaborazione scientifica con il Prof. Alfio Maggiolini e il dott. Mauro di Lorenzo dell’Istituto Minotauro per l’Analisi dei Codici Affettivi. Si ringrazia la Presidente del Tribunale per i Minorenni di Milano dott.ssa Maria Carla Gatto per il fattivo sostegno e il personale ivi operante per la disponibilità dimostrata.

[2] Roberto Pereira Tercero, psicoterapeuta, presidente della Società Spagnola per lo Studio della Violenza Filio-Parentale e direttore del Centro di Terapia Famigliare di Euskarri, che costituisce una delle realtà cliniche con maggiore esperienza a livello internazionale nel trattamento del parental abuse, ricorda lo «spettacolare incremento di queste aggressioni: le denunce di genitori aggrediti dai propri figli si erano moltiplicate per otto in Catalogna nel periodo 2000-2004, per tre nei Paesi Baschi fra il 2002 e il 2003 e per quattordici negli anni 2000-2004 nella Regione di Valencia» [PEREIRA (a cura di) Tra segreto e vergogna. La violenza filio-parentale, Bordeaux Ed., 2019, p. 27]. Per i valori di frequenza di tali condotte stimati in alcuni Paesi, v. oltre alla nota n. 8.

[3] Per l’esposizione qualitativa di alcuni contenuti linguistici espressi nelle documentazioni dei fascicoli amministrativi oggetto della ricerca, volta ad introdurre riflessioni sulle strutture di linguaggio che reggono le condotte di violenza filio-parentale, sia permesso rinviare a BIANCHETTI, RUDELLI, Esperienze di giustizia minorile nei procedimenti amministrativi con i figli maltrattanti, in Minorigiustizia, 2021, p. 132 ss.

[4] Artt. 25 e ss. r.d.l. 20 luglio 1934, n. 1404.